Della distruzione di monumenti di personaggi storici
13/07/2020
Durante le recenti proteste seguite all’uccisione di George Floyd negli USA ed in altre parti del mondo si è chiesta o si è eseguita, con atti di violenza immediata, la demolizione o perlomeno la rimozione di monumenti dedicati a persone che possono essere in qualche modo collegati al razzismo nei confronti degli afro-americani, anche molto lontani nella storia e responsabili solo in quanto appartenenti al contesto storico del proprio tempo, come Cristoforo Colombo. In altri casi i manifestanti si sono limitati all’imbrattare di vernice rossa o con scritte tali statue.
Subito dopo è sorto un dibattito sulla liceità e sull’opportunità di tali comportamenti, oscillanti tra il sostegno in nome dell’alto e nobile ideale della lotta contro il razzismo e la condanna in nome della conservazione dei monumenti come facenti parte della storia. I toni sono stati anche molto accesi con eccessi di superficialità e di aggressività intollerante, come nei confronti del collega ed illustre studioso Keith Christiansen, curatore della pittura italiana al MET, che aveva fatto presente che i fanatici che prendono di mira quelli che individuano come simboli del loro odio sono sempre esistiti, portando l’esempio della Rivoluzione francese quando la folla distrusse molti simboli della monarchia, tra cui le tombe regali nella chiesa di Saint Denis, vero e proprio monumento dell’arte francese, e che già allora Alexandre Lenoir (e l’Assemblea Nazionale) riuscì a far conservare per quello che poteva in nome del loro valore storico. L’esimio collega, al quale esprimo tutta la mia solidarietà, è stato pesantemente aggredito come se la sua posizione potesse in qualche modo giustificare il razzismo.
Risulta davvero difficile ai tempi nostri, calamitosi e non solo per il Covid-19, riuscire ad esprimere un concetto che non siano le poche righe di un social dal tono populista ed aggressivo che ormai sembrano condizionare qualunque argomento e che stanno portando verso il baratro tutta la civiltà occidentale?
Molti decenni di televisione commerciale e alcuni anni di social sembrano avere spazzato via le conoscenze della storia, del pensiero, la capacità stessa di ragionare e di dialogare senza intolleranza e integralismi che con tanta fatica l’Occidente aveva costruito attorno ai pilastri della libertà di pensiero e della cultura.
Poiché il tema della conservazione o della distruzione di monumenti appaiono direttamente connessi anche con la disciplina di cui l’OPD e lo scrivente si occupano vorrei tentare una più articolata riflessione. Le opere d’arte hanno sempre costituito il modo di trasmettere dei contenuti, connessi ovviamente con l’ideologia del potere che li aveva commissionati. In tal senso sono stati ripetutamente coinvolti durante la storia dell’umanità nelle vicende di fortune e di sfortune di tali poteri, subendone anche le conseguenze fisiche, sino alla distruzione. La cultura occidentale ha però elaborato nel corso di molti secoli un diverso approccio riconoscendo nelle opere del passato dei significati diversi da quelli per i quali esse erano state originariamente concepite, soprattutto individuando in esse una duplice serie di significati, storici ed artistici. Si è poi chiarito che i significati storici non riguardano solo i contenuti che l’opera aveva al momento della sua creazione, ma anche quelli che nel corso della sua vita si sono stratificati su di essa, sia fisicamente sia idealmente.
Fin dall’Antichità il personaggio sconfitto, al quale erano quindi attribuite solo connotazioni negative, veniva condannato alla damnatio memoriae, e la sua effige materialmente cancellata, come nel caso del Tondo di Settimio Severo (Berlin, Altes Museum, Antikensammlung), un rarissimo esempio di dipinto su tavola romano che fungeva da immagine ufficiale dell’imperatore con la sua famiglia, dal quale fu erasa l’immagine del figlio Geta. Consistenti distruzioni di opere d’arte per i loro intrinseci significati sono poi accadute durante la riforma protestante, soprattutto nelle aree calviniste, contraria al culto dei santi e della Madonna, con perdite oggi difficilmente quantificabili, ma sicuramente significative. La già ricordata distruzione di molte immagini regali durante la Rivoluzione francese si estese, oltre alle vere e proprie rappresentazioni dei re di Francia come nel caso di Saint Denis, anche alle sculture dei re di Giuda che decoravano la galleria sulla facciata di Notre Dame a Parigi, fatte a pezzi e seppellite, e solo modernamente riscoperte ed esposte musealmente.
In molti cambiamenti di regime le raffigurazioni del potere precedente sono state distrutte, in antico come in epoca recente: quante statue di Stalin sono state eliminate dopo la caduta del muro di Berlino dall’Europa dell’Est, o quante di Saddam dopo la precaria conquista americana dell’Iraq. Allargando questo principio dall’immagine diretta del potere contro cui si è combattuto ai simboli della sua cultura o religione si arriva alla distruzione dei Buddha di Bamiyam compiuta dai talebani nel 2001 in ossequio ad un principio di iconoclastia, comune peraltro a molte religioni e che, come è ben noto, aveva attraversato anche la chiesa cattolica nell’Impero romano d’oriente, anche lì producendo la perdita o l’occultamento di opere d’arte. Ma l’iconoclastia è un concetto diverso che fuoriesce dal nostro argomento. Tornando ad Alexandre Lenoir, la sua opera è alla base delle raccolte poi confluite nel Musée National du Moyen Age – Thermes de Cluny dal 1843 e ritengo che nessuno dei visitatori di oggi si ponga il problema se apprezzare quelle opere d’arte significhi anche schierarsi con la monarchia anziché con la repubblica.
Occorre ancora approfondire l’analisi. Trattandosi di sculture che rappresentano personaggi storici viene subito alla mente la distinzione che Riegl applicò all’inizio del suo Denkmalkultus al concetto di “monumento” che si era già formato con Quatremère de Quincy, che si avvicinava già all’equivalenza con quello di documento storico di una certa fase della civiltà, nell’ottica illuministica dell’Encyclopédie. Riegl distingueva appunto i monumenti volontari, come quelli realizzati per ricordare le gesta di un certo personaggio, e i monumenti involontari, cioè opere nate per altri motivi che nella nostra attuale lettura ci presentano dei valori che vanno al di là delle ragioni per le quali sono stati prodotti e ci forniscono indicazioni di interesse generale come conoscenza di una fase della cultura. Brandi ci ha insegnato che alla base di tutto vi è l’attribuzione di valore che il soggetto compie nell’atto della conoscenza di un oggetto, per cui il risultato non risiede solo nelle caratteristiche intrinseche del manufatto, ma anche nelle strutture culturali e conoscitive del soggetto. Per questo oggi apprezziamo come ‘opere d’arte’ raffigurazioni che, soprattutto in certi periodi storici, erano state prodotte soprattutto per un uso devozionale e funzionale, e non credo che ci siano visitatori della Galleria degli Uffizi che guardando la Maestà d’Ognissanti di Giotto si interroghino sulla propria adesione o meno al dogma dell’Incarnazione, o che ritengano che tale dipinto possa interessare solo i visitatori cattolici. Bisogna dunque valutare se i monumenti oggetto di questa campagna iconoclastica che si ammanta dei nobili ideali dell’antirazzismo hanno unicamente un significato -direbbe Riegl - di attualità, sollecitando pensieri razzisti, oppure se ci comunicano dei valori artistici connessi con la loro esecuzione da parte di un artista, o ancora rappresentano una interessante informazione storica circa le vicende di un tempo diverso dal nostro, del quale conosciamo certo gli errori e gli orrori.
Un altro tema che si collega al nostro ragionamento è legato al fenomeno della censura, con varie motivazioni che anch’essa ha prodotto danni e dispersioni alle opere d’arte. Si va dalla censura di tipo moralistico, applicando cioè criteri etici a raffigurazioni ideali, come avvenne per esempio quando il Concilio di Trento discusse se distruggere o no il Giudizio Universale di Michelangelo per l’eccesso di figure nude, a quella di tipo politico, come avvenne alla pittura murale ‘L’Italia tra le arti e le scienze’ realizzata da Sironi nel 1935 su commissione di Mussolini nell’aula magna della Sapienza a Roma, alla quale nel restauro del 1950 erano stati occultati tutti i simboli del regime fascista, recentemente restaurata riportandoli alla luce. E’ evidente che non si è trattato di una scelta di condivisione degli ideali del fascismo, ma piuttosto di un rispetto per la creazione artistica di Sironi che si è trovato ad operare all’interno di una fase storica che non si può certo cancellare. L’applicazione di una censura di tipo etico ai monumenti del passato è davvero troppo stupida per richiedere molte spiegazioni, sarebbe come voler demolire il Colosseo perché l’Impero romano era oppressivo e violento.
Restano anche da dimostrare i benefici per l’ideale che si pretende di salvaguardare che possano derivare da tali rimozioni o distruzioni. A seguito della distruzione della statua di Cristoforo Colombo, come si legge in questi giorni richiesta e talvolta attuata dai manifestanti, i nativi americani tornerebbero forse in possesso del continente americano? Ed i singoli partecipanti a tali manifestazioni sarebbero davvero disposti a cedere le loro proprietà ai discendenti di tali popoli? A ben vedere, all’opposto, è proprio la conoscenza della storia con tutto il suo bene ed il suo male che può, invece, evitarci di ricadere negli errori e nelle tragedie del passato. Certo bisogna stare attenti ad evitare strumentalizzazioni di questo concetto: i monumenti del Foro Italico o dell’EUR romani, edificati nell’epoca fascista, sono una interessante dimostrazione della cultura del tempo, con i suoi aspetti positivi e quelli negativi, ma niente di tutto ciò deve poter essere impiegato per propagandare il ritorno a quel pensiero politico che ha prodotto una inarrivabile mostruosità. Per questo conserverei i monumenti del ventennio, ma arresterei immediatamente i molti facinorosi che in questi ultimi anni hanno compiuto impunemente atti che si configurano come una vera e propria apologia del fascismo.
Bisogna, infine, comprendere che questo, come altri comportamenti, devono in Italia per prima cosa confrontarsi con il sistema di norme che il nostro Paese si è dato sin dall’inizio del Novecento per la tutela dei suoi beni culturali. Per questo se uno di questi monumenti ricade sotto tali condizioni, e cioè lo Stato vi riconosce un valore ormai di carattere storico per cui la Repubblica, in tutte le sue parti, come recita l’art. 9 della Costituzione, lo ritiene degno di essere conservato e tramandato alle generazioni successive, compierne la distruzione costituisce un vero e proprio reato.
In conclusione, a cosa serve rimuovere o distruggere le statue di personaggi storici che nella loro vita sono stati protagonisti o complici di nefandezze? Risarcisce le vittime? Impedisce che tali fenomeni accadano in futuro? Assolutamente no, si tratta semplicemente della troppo facile concretizzazione in un oggetto del ‘nemico’ da esorcizzare, sentendosi la coscienza a posto, per riconoscere cioè in un manufatto il ‘male’ dal quale si crede di potersi liberare con la sua fisica eliminazione, giungendo così ad una personale gratificazione che si limita al superficialissimo livello di un cinguettio, e che non comprende la complessità della realtà e della storia, e quindi non può minimamente influire su di essa. L’accondiscendenza delle Autorità verso tali richieste fa capire immediatamente che non sono queste le conquiste di cui l’umanità ha bisogno per vincere i propri tanti mali, tra cui il razzismo, per cui pur di non cambiare nulla si lascia gli ‘zeloti’ baloccarsi con statue da distruggere.
Marco Ciatti
Direttore dell'Opificio delle Pietre Dure